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  • Immagine del redattoreLaura Beltrame

Un'ottica sacra

Durante le mie molte incursioni in quella che oggi si è convenuto chiamare "biblioteca dell'Akasha", ho avuto modo di avvicinarmi molto spesso ai Centri terapeutici.

Tanto nell'Egitto del faraone Akhenaton quanto nella Palestina delle comunità essene, mi ha sempre colpito la constatazione che quei Centri erano ben lungi dall'essere semplici ospedali o dispensari. In quei tempi che ci sembrano più lontani di quanto siano in realtà, i concetti di salute o di malattia erano necessariamente legati alla dimensione sacra dell'essere umano.

Il corpo non veniva considerato come un semplice meccanismo terrestre perfezionato : veniva percepito, in primo luogo, come la parte tangibile di un Tutto che affondava le radici in un universo celeste incommensurabile, l'universo del Divino.

La dimensione fisica, palpabile, veniva dunque vista quale anello conclusivo della catena della Creazione; la materia densa rappresentava cioè il primo gradino della scala attraverso la quale l'uomo poteva risalire fino al sottile Oceano delle Cause.

Qualsiasi terapeuta padrone della propria arte sapeva di dover risalire il più in alto possibile lungo questa scala per identificare la o le origini di una malattia, se voleva tentare di disinnescarla. Dal momento che l'essere umano veniva concepito come un albero con radici in primo luogo celesti, non ci si poteva permettere idealmente, di mettere mano al suo equilibrio in condizioni o in luoghi qualsiasi; per questo quasi tutti i Centri terapeutici erano anche dei templi. Qui tutto era imperniato sulla dimensione sacra dell'essere; non di rado venivano chiamati Case della Vita, e ad essi erano strettamente connessi luoghi iniziatici : erano, cioè dei "luoghi di passaggio" in tutti i sensi del termine. Non era quindi possibile diventare terapeuti senza essere innanzitutto sacerdoti, ossia senza essersi dedicati abbastanza a lungo a un'autentica riflessione metafisica.

Il percorso formativo sfociava da sé in una percezione più elevata, per cui la morte non veniva più vista come opposta alla vita, né la malattia come opposta alla salute. Salute, malattia e morte erano considerate piuttosto come stadi diversi della metamorfosi di un'immensa Corrente di Vita in perpetuo movimento; stadi le cui molteplici manifestazioni, in definitiva, avevano un unico scopo, grande e sublime : la maturazione della coscienza e il suo purificarsi in vista di una felicità a venire. Di conseguenza si insegnava, che contrariamente alle apparenze, nulla era l'opposto di nulla. La morte non proclamava la sconfitta della vita, e la malattia traduceva semplicemente una mancanza di dialogo armonioso fra l'anima e il corpo.

Partendo da queste certezze, le varie scuole terapeutiche cercavano di operare in un contesto che tenesse sempre conto del carattere eminentemente sacro dell'Oceano di Vita in cui tutti siamo immersi...e che, in ogni istante, ci attraversa.


Daniel Meurois Givaudan - Così curavano Ed Amrita





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